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La Parola Incontra Cavalieri e Dame

A cura del Nobile Cavaliere, Gran Maniscalco, Grand’ Ufficiale + Fra’ Libero Vespi
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – dal Vangelo secondo Luca Lc 23,35-43

Cari Fratelli e Sorelle con questa domenica termina il tempo ordinario. In questo percorso il Vangelo di Luca è stato l’oggetto delle mie catechesi. Della parola che incontra Cavalieri e Dame. Dalla prossima domenica inizierà il tempo di Avvento e anche il nuovo anno Liturgico. Per noi Cristiani sarà uno dei tempi forti, tempo d’attesa che ci accompagnerà fino al Natale. Tempo di speranza in Dio, in quel Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Che ci invita e ci porta a contemplare insieme a Maria, Dio nascosto in un piccolo bambino. Tempo di attesa che si fa ancor più grande e trepidante, per noi Cavalieri e Dame dell’Ordo Templi Hierosolymitani; che ci accompagna verso il nostro Capitolo che quest’anno coincide con l’anniversario della fondazione dell’OTH. Tempo che ci invita a ricordare nella preghiera il nostro primo Cardinalis Patronus Alfons Maria Stickler. Per questo Fratelli e Sorelle dobbiamo ringraziare sempre e con gioia Dio per i doni che ci ha dato per la sua grazia e il suo Amore. «È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati (Col 1,13-14)». Guardiamo Gesù appeso a quella croce, guardiamolo con gli occhi del cuore, ma anche con i veri occhi e vedremo che, non abbiamo mai ricevuto uno sguardo più tenero e compassionevole del suo. Da quella croce capiamo che mai abbiamo ricevuto un così grande e amorevole abbraccio. Grazie Gesù per il tuo Amore e il Tuo Perdono, anche quando faccio fatica ad amarmi e a perdonarmi. Cavalieri e Dame tutti abbiamo bisogno di salvezza, io per primo ho bisogno di salvezza. Quando ci sentiamo persi, quando cerchiamo la soluzione e non abbiamo in noi tutte le risposte, l’assurdo e il non senso aumentano il nostro sconforto. Sentiamo il bisogno di qualcuno che ci aiuti a mettere ordine nella nostra vita, nei nostri dubbi, nelle nostre incertezze, nel nostro caos interiore. Di qualcuno che intervenga nella storia, che faccia giustizia e convinca gli uomini a vivere nella vera pace, quella che solo Dio può donare. Oggi è la festa di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, del Re dei Re, titolo grandioso, che forse può sembrare anacronistico, ma se ci pensiamo è il motivo per cui hanno ucciso Gesù. C’era scritto sulla croce. Al centro del Vangelo c’è la croce, scandalosa novità ai nostri occhi, Dio presenta la sua regalità dal trono della Croce. Il nostro Re, il Re dei Re invece d’essere seduto su un trono dorato, è appeso a una croce, non ha scettro, ma mani forate e in testa una corona di spine anziché d’oro e pietre preziose. Un Re che a differenza dei Re terreni non ha bisogno di eserciti. Lui manifesta la sua potenza nella debolezza, nell’umiltà, nel servizio, un Re talmente potente da lavare i piedi ai suoi discepoli e da dare il boccone a chi lo stava per consegnare nelle mani dei carnefici. Tutti si scandalizzano di Lui, lo deridono all’apparenza sembra un Dio sconfitto, ma proprio sulla Croce manifesta la sua grandezza e forza. Incomprensibile e paradossale dal punto di vista umano, un non senso che trova risposta solo nella fede. Spetta a noi Fratelli e Sorelle prima d’iniziare l’Avvento, il tempo dell’attesa, la risposta alla domanda urgente della fede. Siamo! Vogliamo essere figli di un Re. Di un Re differente dagli altri, che ci Ama follemente, che ci chiede semplicemente di aprire i nostri cuori, di lasciarci raggiungere e illuminare dal suo Amore.

Cavalieri e Dame Buongiorno, l’incontro con la parola di oggi verte su un estratto della Costituzione pastorale《Gaudium et spes》del Concilio Vaticano II . Ciò che dice e indica è in linea con i brutti avvenimenti di questi ultimi tempi. Fratelli e Sorelle il nostro Ordine sia maestro e insieme portatore di quella pace di cui tutta l’umanità ha bisogno. Dalla Costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Concilio ecumenico Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Nn. 82-83) Bisogna formare le menti a nuovi sentimenti di pace. Coloro che governano i popoli, quelli cioè che hanno la responsabilità non solo del bene delle loro nazioni, ma anche di quello della comunità umana universale, si sentono fortemente condizionati dall’opinione pubblica e dalla mentalità generale degli uomini. Perciò a nulla gioverebbe loro l’adoperarsi generosamente a costruire la pace, finché sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, odi razziali e ostinate ideologie dividono gli uomini e li oppongono gli uni agli altri. Da qui l’estrema necessità di una rinnovata educazione degli animi e di un nuovo orientamento nella pubblica opinione. Quanti si consacrano all’attività dell’educazione, specialmente della gioventù, o contribuiscono a formare la pubblica opinione, devono considerare gravissimo loro dovere la premura di inculcare negli animi di tutti nuovi sentimenti di pace. Ed invero ciascuno di noi deve cambiare il suo cuore, avendo di mira il mondo intero e quei compiti che noi tutti, insieme, possiamo svolgere perché l’umanità si incammini verso migliori destini. E non ci inganni una falsa speranza. Se per l’avvenire non si deporranno le inimicizie e gli odi, e non si concluderanno stabili e onorevoli trattati di pace universale, l’umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste scientifiche, già versa in gravi pericoli, sarà forse portata al giorno funesto in cui non sperimenterà nessun’altra pace se non quella terribile della morte. Tuttavia la Chiesa di Cristo posta in mezzo alle angosce del tempo presente, mentre ricorda queste cose, non cessa di nutrire la più ferma speranza. Agli uomini di oggi intende proporre con insistenza, l’accolgano o no, il messaggio dell’Apostolo: Ecco, ora è il momento favorevole per la trasformazione dei cuori, ecco adesso i giorni della salvezza (cfr. 2 Cor 6, 2). Per costruire la pace si richiede anzitutto che vengano sradicate le cause di discordia tra gli uomini e in modo speciale le ingiustizie. Sono esse che fomentano le guerre. Molte di queste cause provengono dalle troppo stridenti disuguaglianze sul piano economico, come pure dal ritardo dei rimedi necessari. Altre invece nascono dallo spirito di dominio, dal disprezzo delle persone e, se guardiamo alle radici più recondite, dall’invidia umana, dalla diffidenza, dalla superbia e da altre passioni egoistiche. Siccome l’uomo non può tollerare tanti disordini, ne consegue che il mondo, anche quando non infuria la guerra, è travagliato continuamente da lotte e violenze. Siccome poi i medesimi mali intervengono nelle relazioni tra le diverse nazioni, è assolutamente necessario, per debellarli e prevenirli e per reprimere le violenze sfrenate, che le istituzioni internazionali operino di comune accordo e siano meglio e più saldamente coordinate, come pure che si stimoli, senza mai stancarsi, la creazione degli organismi atti a promuovere la pace.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 19,1-10

Cari Fratelli e Sorelle, quante volte nei momenti di crisi e di sofferenza abbiamo detto o perlomeno pensato che vorremmo cambiare vita. Quando non troviamo risposte alle domande, chissà quante volte in queste situazioni di disagio esteriore e interiore, da credenti ci siamo chiesti: “Cosa vuole il Signore da me?”. “Chi può immaginare cosa vuole il signore da noi”, se non permettiamo ai nostri pensieri di superare il limite umano e terreno di pensare e agire, faremmo sempre più fatica a comprendere. Se non ascoltiamo la sua voce e induriamo il cuore lasceremo sempre il Signore lontano e fuori dalla nostra vita. Cavalieri e Dame proprio questo vangelo ci parla d’una conversione straordinaria, meravigliosa, quella di un “caso disperato” come lo ero io, questo brano di Luca sembra che parli proprio a me, alla mia vita passata, per far capire che nulla è impossibile a Dio! In questo e nel mio caso, per dirla con le parole di Don Luigi Ciotti: “Gli irrecuperabili non esistono. Sono un’invenzione della nostra cattiva volontà”. Non c’è un tempo Fratelli e Sorelle, abbiamo un luogo, le strade di Gerico, un albero di sicomoro, un peccatore e Gesù, ma non il tempo… non c’è il giorno né l’ora, come a dire: “La conversione può verificarsi in qualunque momento”. L’«oggi» non è quello cronologico, che attraversa gli «oggi» d’ogni tempo, è l’«oggi» che mi appartiene e mi coinvolge, quest’«oggi» ci appartiene e ci coinvolge totalmente. Il metro è il «valore» non l’orologio che misura l’ora e il tempo. Le cose vecchie sono passate, Nostro Signore fa nuove tutte le cose. Dare il senso all’oggi della nostra vita e alla nostra conversione, significa scoprirne i valori e le relazioni che costruiscono questo nostro tempo. Significa prendere coscienza di se stessi, del proprio presente, fare memoria del passato proiettandosi verso il futuro. La realtà di quest’«oggi» si comprende pienamente se ci imbattiamo nella sofferenza, o ci scontriamo con le domande sul senso della vita, sul male morale e la malattia fisica in genere. È Cogliere l’attimo in cui Dio ci chiama, invitandoci alla conversione, in questo istante il Signore passa sotto il mio albero, entra nella mia casa, sfiora dal basso la mia vita e mi interpella. Apre il mio cuore all’incontro con Lui e con il Fratello. L’incontro con Gesù è un attimo irripetibile, meraviglioso ci trasforma in persone nuove aperte alla sua Grazia e alla sua misericordia, soprattutto al suo perdono e al suo smisurato Amore. «Oggi per questa casa è venuta la salvezza». Fratelli e Sorelle abbiamo soltanto l’«oggi» per accogliere Gesù nella nostra casa, nel nostro cuore, nella nostra vita, ieri è passato, il domani non lo conosciamo e non ci appartiene, è soltanto nell’oggi che possiamo trasformare il nostro desiderio in realtà.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 18,9-14

Cari Fratelli e Sorelle, domenica scorsa ci siamo lasciati con alcune importanti riflessioni: sul senso della vita e su contingenti difficoltà. Soprattutto sull’esortazione di Nostro Signore Gesù Cristo, a pregare sempre e su quanto sia efficace la preghiera, per mantenere viva la nostra relazione con Dio Padre. La preghiera ci insegna la prudenza, la perseveranza e la pazienza. Come l’acqua è essenziale per tutti gli esseri viventi, così la preghiera è l’azione che assicura la qualità della nostra quotidiana esistenza. Non è detto che dobbiamo pregare per forza, possiamo decidere anche di non pregare, di vivere senza pregare. Dio nella sua grande misericordia ci ha dato libertà di scegliere, tra credere in Lui o farci i fatti nostri e credere solo in noi stessi. Cavalieri e Dame scegliere di pregare è importantissimo in quanto significa riconoscere d’essere creature umane e limitate in relazione al nostro creatore. La scelta di pregare ci apre inoltre alla relazione con tutti i credenti preganti, frequentatori della casa del Signore nostro Dio. La perseveranza nella preghiera suppone fiducia in Dio Padre, segno d’una incrollabile fede. Chi cerca trova, a chi chiede sarà dato, a chi bussa sarà aperto. È Gesù stesso che invita tutti gli uomini a lodare Dio Padre. “Il povero grida e il Signore l’ascolta”. Anche questa volta la parabola di Gesù ci scombussola, ci mette dinanzi a una profondissima riflessione. Fratelli e Sorelle Dio è giudice giusto per Lui non c’è preferenza di persone. Ascolta il povero e l’oppresso, l’orfano e la vedova, sente il grido di chi si rivolge a Lui, con cuore umile e pentito. Dio ci chiede di riflettere attentamente sul modo di pregare del fariseo e del pubblicano. Ci chiede di non fermarci a una interpretazione superficiale della parabola e ai due differenti modi di pregare. Vedendo ciò che vediamo ogni giorno, ascoltando ciò che ascoltiamo, guerre, crisi e corruzioni dilagare, persone avide di potere e di denaro, che opprimono i propri Fratelli restando impuniti, verrebbe da pensare: vale la pena di comportarsi bene? Per noi che ci riteniamo giusti vale la pena d’andare in chiesa a pregare, quando vediamo persone che noi riteniamo incalliti peccatori pregare accanto a noi nella casa del Signore? In questo istante Cavalieri e Dame dovremmo interrogarci sul perché andiamo in chiesa a pregare, sul perché e il per come preghiamo, siamo davvero diversi da tutti gli altri? O dalle altre sette pseudo religiose? Chiediamo al nostro cuore perché siamo lì a pregare: “Per sentirci e dimostrarci pii e giusti davanti a Dio e agli altri? Per guadagnare crediti per la vita eterna? Per sentirci migliori degli altri”? Dio con questa parabola ci mette in guardia sul nostro modo di agire, sulle parole che diciamo. Gesù scardina ancora il modo d’agire e di pensare dell’uomo, con audacia ci dice che il modo sbagliato di pregare può essere pericoloso, può allontanarci da Dio. «O Dio ti ringrazio» dice il fariseo iniziando con parole giuste la sua preghiera, ma poi sbaglia tutto, perché non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie, non loda Dio, loda sé stesso e il suo smisurato ego. Se come il fariseo mettiamo al centro il nostro “io” nessuna relazione funziona, perché esiste solo il tuo “io” e allontani da te il Fratello. Dando risalto alla tua mormorazione, esisti solo tu e non gli altri. Nostro Signore sa di cosa abbiamo bisogno e se preghiamo non lo facciamo per ricevere, ma per essere trasformati nel cuore e nell’anima. Tuttavia si può essere artifici d’una preghiera inutile, ma anche costruttori d’una preghiera efficace per la qualità della nostra vita quotidiana e della nostra santità. Un indicatore efficace per la costruzione d’una preghiera vera, efficace e santificante è l’umiltà. La preghiera umile è riconoscerci peccatori davanti a Dio, è dichiarare consapevolmente la sconfitta della nostra buona volontà, riconoscerci persone finite, peccatori e con tutta la nostra umanità al cospetto di Dio. È il sincero riconoscimento di non farcela da soli, confidando unicamente sulle nostre forze, sulle nostre capacità umane e sul potere del nostro individualismo. Non possiamo escludere Dio dalla nostra vita e la la forza rigenerante della sua Grazia e della sua Misericordia.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 18,1-8

Cari Fratelli e Sorelle, la fede è una relazione esclusiva con Dio, vuol dire collocarlo a fondamento della nostra esistenza. Indirizzarsi esclusivamente verso Lui, è essere come quel seme che desidera farsi fecondare da questo rapporto esclusivo. A volte l’esclusività del rapporto con Dio vacilla per la nostra mancanza di fede. Quando cominciano in noi le domande senza risposta e i perché. Domande anche profonde che attraversano i momenti della nostra vita. Domande sulla pandemia non ancora del tutto debellata, sull’assurdità delle guerre in giro per il mondo, della situazione di crisi che stiamo vivendo, sul senso della vita dove tutto sembra inutile e Dio sembra non esserci. Interrogarci sul nostro essere Cavalieri quando ci stanchiamo di tutto, come stare nei giorni in cui il nostro cuore è chiuso e Dio sembra assente? Quando la nostra fede vacilla, negli impegni presi, nel lavoro, nella famiglia, nell’Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e nella vita in generale? E verrebbe voglia mollare tutto! A che serve continuare con il nostro cuore chiuso e sordo? Proprio in questi momenti interroghiamoci sul nostro modo di vivere ogni giorno il Vangelo, ma soprattutto chiediamoci che significato ha per me, per tutti, per noi Cavalieri e Dame la preghiera? Che profonda riflessione ci chiede questa parabola del Vangelo, quanti interrogativi su queste figure agli estremi una dall’altra. Da un lato un giudice potente senza scrupoli, disonesto con il cuore di pietra che non teme Dio, dall’altro una povera vedova, la persona più debole e indifesa nella società di quel tempo. Nessun diritto, nessun potere, nessuno la difende e con nessuna possibilità d’ottenere giustizia, lei però non si arrende contro ogni logica non si demoralizza, non demorde, insiste e alla fine riesce a ottenere giustizia. “Pregare, pregare sempre senza stancarsi mai…” ce ne dà l’esempio la figura della vedova, la preghiera disarma anche il duro cuore del giudice, spiana le montagne e spazza via gli ostacoli. Nella figura del giudice ravvisiamo il comportamento di molte persone, che non fanno le cose per magnanimità e altruismo, ma solo nella contingenza di un tornaconto personale. Dio non è così Fratelli e Sorelle, Dio opera diversamente: la sua sollecitudine verso gli uomini è gratuita e smisurata, Egli conosce tutte le nostre debolezze e verso di esse è molto paziente. I suoi tempi non sono i nostri tempi, noi vorremmo tutto e subito, vorremmo esaudisse i nostri desideri molto terreni con sollecitudine. Dio è paziente «Lento all’ira e grande nell’amore», solo Lui è magnanimo. Capace di perdonare oltre ogni misura. La preghiera Cavalieri e Dame non è un evadere dalle fatiche della giornata, un estraniarsi dal mondo che ci circonda e dai nostri problemi. È una lotta per la vita, per la giustizia, per la vittoria dell’Amore in tutti gli uomini. Ogni momento è buono per pregare e non solo nelle ore canoniche stabilite, un attimo si trova sempre in qualunque luogo. Con la preghiera coltiviamo e manteniamo viva la nostra relazione con il Signore. La preghiera è espressione di fede in colui che può esaudirci, essa è anche esercizio di pazienza sulla terra, insegna a non confidare sulle proprie forze e ad affidarci in tutto al Dio della salvezza. Insegna la prudenza e la perseveranza, come acqua sulla roccia scava lentamente l’indifferenza delle persone più dure e insensibili. Ti rende capace di sopportare e perdonare. La preghiera Fratelli e Sorelle non è mai singola e personale, è comunitaria! Il Fratello prega per i Fratelli e per la comunità. Essa si realizza tramite il supporto dei Fratelli e della comunità. I Poveri Cavalieri di Cristo insistevano e perseveravano nella preghiera per continuare a sperare contro ogni evidenza. Così anche noi sul loro esempio insistiamo e perseveriamo nella preghiera non per convincere Dio, ma per entrare nei suoi tempi e nei suoi modi. Per fare spazio a Nostro Signore, all’Amore infinito che vuole abitare in noi e dire con il cuore Grazie per i doni che ci dai ogni giorno, Grazie per la tua infinita misericordia.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 16,19-31

Cari Fratelli e

Sorelle, quante proteste e indignazioni sentiamo da più parti contro la povertà e il divario fra ricchi e poveri nel mondo.

Non sempre queste proteste sono seguite da un’analisi approfondita delle cause di tanta disuguaglianza e dalla volontà reale di porvi rimedio. Talvolta sembra prevalga più l’indifferenza che il reale impegno a diminuire o annullare tale divario. Questa parabola non solo ci presenta lo specchio di una società colma di disuguaglianze e ingiustizie, in cui il ricco e il povero non s’incontrano, ma cerca d’incrociare la loro strada, fino a farci comprendere che non è tanto il povero ad avere bisogno del ricco, bensì l’incontrario. I due protagonisti sono ben distinti: il ricco non ha un nome, è un perfetto sconosciuto, nel cui cuore non c’è Dio ma solo avidità, ed egoismo, lo stesso Dio non lo conosce. Il povero ha un nome, è ben conosciuto da Dio e da tutti. Fratelli e Sorelle, ci sono popolazioni che si comportano come quel ricco vivendo nell’agiatezza e nello sperpero (i cattivi amministratori dei beni che Dio ha dato da custodire). E popolazioni che a causa dello sfruttamento e la mal distribuzione delle risorse, la fame, le malattie e la mancanza d’acqua vivono in povertà come Lazzaro. Ci mostra anche, come la ricchezza possa rendere ciechi alla realtà, sordi alle necessità dei Fratelli e indisponibili, con il cuore chiuso alla Parola che salva. Il ricco chiuso nel suo egoismo, intrappolato nel suo benessere non vede il povero che soffre, anzi lo calpesta, come fosse un’entità invisibile. Tutti siamo chiamati a fare la nostra parte, ad annunciare Dio con i fatti, non solo con le parole, come ci ricorda Papa Francesco nella “Laudato sì” per incominciare ad eliminare le disuguaglianze, le strutture di male che vediamo operare nelle piccole realtà dove viviamo e agiamo tutti i giorni. Dalla morte nessuno può scappare, né il povero, né il ricco, come dice San Francesco d’Assisi nel Cantico delle Creature: «Laudato sì, mi’ signore cum tucte le tue creature…Laudato sì, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente pò skappare. Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le sue sanctissime voluntati, ka la secunda morte nol farà male…». Questo Vangelo descrive cosa succederà nell’aldilà, dove il ricco nei tormenti chiede aiuto a quel povero che in vita aveva calpestato senza riguardo, come un essere invisibile senza diritti, tenendolo nella sofferenza e nell’indigenza. Gli chiede di salvarlo, di toglierlo da tormenti, gli chiede d’andare a salvare la sua famiglia. Troppo tardi quel ricco comprende d’avere accumulato tesori inutili per il Regno dei Cieli. Cavalieri e Dame il Bene non è e non dev’essere solo un pensiero, un’idea, ma un fatto concreto e reale. La Carità deve essere una delle principali virtù dei Poveri Cavalieri di Cristo, a cominciare dalle nostre piccole realtà dove viviamo e agiamo tutti i giorni. Là dove esistono e sono in aumento problematiche di disagio e di sofferenza. Dove esistono realmente sacche di povertà e di degrado culturale e sociale. Avere occhi e cuore aperti e mani pronte a fare il bene, dove in perfetta comunione e condivisione si può ben operare sulla strada della carità e dell’aiuto a chi soffre, nella spiritualità e nella prosecuzione delle opere che contraddistinsero e contraddistinguono l’Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 16,1-13

Cari Fratelli e Sorelle, quanto è strana questa pagina di vangelo, quanto sono spiazzanti le sue parole, in conflitto con il ragionamento umano. Colui che è stato truffato loda il suo truffatore, com’è possibile? La lode di Gesù ha un bersaglio preciso, non è diretta alla disonestà del truffatore, ma alla sua scaltrezza, (lodò quell’uomo perché aveva agito con scaltrezza). Perché ha saputo fermarsi a pensare, a ragionare sulle sue azioni, ha cominciato a capire la differenza tra la falsa ricchezza e la vera ricchezza. Cavalieri e Dame Dio è il titolare di quest’azienda che è il mondo, tutti noi siamo gli amministratori dei suoi beni e come infedeli curatori ogni giorno sperperiamo i doni e i talenti che ci ha affidato. L’essere peccatori ci accomuna tutti, ci fa perdere risorse, energie e tempo, dando a Satana (l’avvocato accusatore), il modo d’accusarci delle nostre mancanze, d’attaccarci sui nostri fallimenti, sulle nostre incapacità a gestire i beni che Dio ci ha dato. Dio conosce il cuore degli uomini, conosce le nostre infedeltà, sa bene che usiamo i beni terreni non per il bene comune e per la condivisione, ma per la prevaricazione, per l’arricchimento di pochi, la sottomissione e lo sfruttamento di molti. I tanti beni e le molte risorse che il Signore ha messo sulla terra basterebbero per tutti, ma essendo distribuite male vanno a vantaggio solo di pochi e questo è in abominio a Dio. “Gesù ama il povero e non si dimentica di lui, anche se noi lo sfruttiamo”, soprattutto quando lo sfruttiamo. La lode è riferita alla capacità di quest’uomo di trasformare il suo fallimento, il suo crollo, nella ricerca del bene per il prossimo, nella capacità d’inviare tanto materiale per costruire una bella casa nelle dimore eterne e questo materiale è fatto di buone azioni, di condivisione, di equa distribuzione dei beni per l’aiuto al povero e al bisognoso. Trasforma il suo egoismo nell’accumulare ricchezze, la sua indifferenza, in apertura all’altro, al Fratello bisognoso, trasforma la posizione sociale ed economica in relazioni a favore di colui che è nel bisogno, (Gesù ha dato se stesso per il riscatto di tutti). Ha capito dove e come investire: condividere il debito per creare reddito, un reddito d’amicizia, un reddito spirituale. Nella vita servono amici e buone relazioni che possono darti un futuro anche nelle dimore eterne, il bene non è mai inutile, anzi è proficuo e gratificante.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 15,1-32

Cari Fratelli e Sorelle, Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ancora una volta ci propone il tema della conversione e insiste sull’attesa paziente di Dio, del suo grande desiderio che ciascun figlio torni a Lui e in Lui trovi grazia, misericordia e gioia piena. Innanzitutto Nostro Signore ci invita a non mormorare: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Quanti Farisei ci sono ancora oggi, il mormorare è una brutta abitudine. Gesù che conosce i cuori di tutti, ci mette davanti alle nostre fragilità e alla nostra condizione di peccatori con tre esempi straripanti della Sua misericordia. Cavalieri e Dame quante volte ci sentiamo persi, immersi in una situazione di isolamento. Immedesimiamoci con la «pecora smarrita», una pecora per condizione naturale non sta mai separata dalla sicurezza del gregge, in quanto sarebbe esposta ai pericoli dei predatori. Anche noi non possiamo allontanarci da Dio, perdere Dio, Lui non ci perderà mai, ci cercherà sempre finché non ci ha trovato, scruta ogni istante l’orizzonte per vedere se torniamo da Lui. Nessun’altra pagina descrive l’essenzialità del rapporto con noi stessi, con gli altri e con Dio come questa. Appena ci vede Dio nostro Padre ci corre incontro, ci abbraccia come ha fatto con quel giovane figlio, che desideroso di nuove esperienze lascia tutto e se ne va lontano dal padre dalla gioia, dalla ricchezza. Agendo così quel giovane divenne schiavo del suo individualismo, soffrì la fame e la mancanza di dignità umana. «Essere perduti» indica la nostra condizione di peccatori, vuol dire vivere isolati, separati, schiavi del nostro egoismo, delle nostre mormorazioni, senza comunione con Dio, non considerando gli altri come Fratelli e Sorelle. Vuole dire non sapere gestire il capitale dei beni che abbiamo a disposizione e quando tutto sembra perduto Gesù è lì ad aspettarci, ad accoglierci con grande magnanimità e straripante amore. Spesso siamo confusi e ci perdiamo non solo per strade lontane, ma anche in casa, anche nella gioia e nella ricchezza ci isoliamo nel nostro individualistico mondo, nel considerarci più bravi e migliori degli altri, nel dire: “Siamo stati sempre qui e non ci hai dato nulla, non ci hai regalato niente, non abbiamo mai ricevuto un premio. Ci indigniamo su tutto, facciamo resistenza, ci ribelliamo, come fa l’altro figlio, non ammettiamo e non capiamo l’accoglienza, la misericordia, la compassione. Gesù è sempre lì, viene incontro anche a noi, ci spiega con Paterno amore, con infinita pazienza quanto è bello accogliere, ritrovare ciò che era perduto e condividerne la gioia. Dio è immensamente buono, noi siamo infedeli Lui è fedele e preferisce la nostra felicità, tanto da dare la sua vita per la nostra salvezza. Nel grande mistero della morte e resurrezione di Cristo sta l’immenso Amore che ha per noi. Dio Padre perdona, ovviamente spetta a noi il primo passo, S. Bernardo diceva: “Ogni buon Cavaliere prima deve sostenere e vincere la battaglia contro i nemici che ha dentro, per combattere efficacemente i nemici esterni”. Nostro Signore non ci tempesta di domanda ci accoglie, fa festa, siamo tornati sulla sua strada, siamo insieme a Lui che ci accompagna nel cammino verso il futuro.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 14,25-33
 

Cari fratelli e Sorelle quando Gesù propone qualcosa è sempre spiazzante, ci invita a pensare, a fare una scelta. Per seguirlo indica delle condizioni. Radicali, forti. «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i Fratelli, le Sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Ancora una volta Gesù punta tutto sull’amore, le sue parole però sembrano cozzare contro la bellezza e la forza dei nostri affetti, la felicità di questa vita. Il punto focale è: Se uno non mi “ama di più”. Quindi non si tratta di una sottrazione, ma di un’addizione. Gesù non ci sottrae i nostri amori, anzi aggiunge un di più.
Gesù non pensa d’iniziare una competizione di sentimenti con le sue creature, sa già che Lui non vincerebbe, a meno che non fossimo tutti Santi e Sante e noi non lo siamo, anzi siamo dei peccatori bisognosi del perdono, della grazia di Dio. Sono parole dure e severe, sicuramente per farci capire che seguire il fuoco significa incendiarsi d’amore. Seguire Lui disposto a donarsi totalmente, portare la sua parola di vita, significa cambiare, voltare pagina e anche noi ci disponiamo interamente al dono. Cavalieri e Dame noi amiamo i nostri cari, le nostre famiglie, il nostro Ordine.
Se ci facciamo incendiare da quel fuoco, ne consegue che amiamo anche i Fratelli e le Sorelle dell’Ordine e tutte le finalità che esso si prefigge, la compassione, l’aiuto, il soccorso, la carità, facendo questo “amiamo di più”, amiamo il povero, il bisognoso, coloro che sono nell’indigenza e nella precarietà.
Amiamo Dio con tutto il nostro cuore, scoprendo quanto è bello dare e ricevere amore. Gesù è la garanzia che i nostri amori saranno più vivi e più luminosi, perché Lui possiede la chiave dell’arte di amare. Dopo “l’amare di più” Gesù parla di una ulteriore condizione per seguirlo: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me…». Per seguire il Cristo bisogna prendere la nostra croce e portarla, ma attenzione a non banalizzare la croce, non immiseriamola a semplice immagine delle nostre inevitabili difficoltà di ogni giorno, la fatica, la precarietà, o malattia da sopportare. Nella croce c’è il riassunto della vita di Gesù, del suo infinito amore per noi, un amore che non tradisce mai. Ha preso su di sé le nostre colpe, i nostri peccati è morto e risorto per la nostra salvezza.
Le due condizioni si illuminano a vicenda, portare la croce significa portare l’amore fino in fondo. Gesù non ama le cose lasciate a metà, generano solo tristezza, in questo modo c’insegna a non arrendersi mai a lottare contro l’esercito del male anche in inferiorità numerica, a portare a compimento ogni nostra opera e a essere perseveranti nel bene.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 14,1.7-14

Cari Fratelli e Sorelle la vita di ogni giorno e la storia ci insegnano che l’orgoglio, la vanità, l’arrivismo, l’ostentazione, sono la causa di molti mali, a volte di situazioni spiacevoli. E Gesù ci fa capire la necessità di scegliere l’ultimo posto, un ultimo posto che non vuole dire nascondersi, dissimulare il valore di ciò che facciamo, rinunciare a ciò che abbiamo conquistato onestamente e con sacrificio. Non vuole dire rinunce e sacrifici, ma essere umili. Se viviamo l’umiltà come un fardello un’imposizione pesante, probabilmente non abbiamo colto il significato profondo di essa. La liturgia di questo giorno offre una chiave di lettura che ci può apparire sorprendente: “L’umiltà è espressione dell’amore autentico, è una via che consente d’esercitare la carità, la più alta e perfetta delle virtù”.

«Queste dunque le tre cose che rimangono: La fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Corinzi 13,13)

 

Questo paragrafo del Cap. 13 della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi, noi Poveri Cavalieri di Cristo non dovremmo mai dimenticarlo e aprirà quella porta stretta indicata da Gesù. Cavalieri e Dame quando ci mettiamo davanti a Dio nella dimensione di umiltà da Lui indicata, Dio ci esalta e si china verso noi per elevarci a sé. Essere umili (e non sforzarsi d’apparire tali!) rende amabili agli occhi di Dio e degli uomini, permette di amare a propria volta il Signore Nostro Dio e i Fratelli con gratuità e pienezza. Essere umili libera dalla superbia, il vizio antico insinuato nel mondo dal nemico (Satana). In Virtù della sua grande umiltà Maria la Madre di Dio e nostra Madre, ha schiacciato la testa e l’orgoglioso del serpente antico Satana. Quante volte invece ci preoccupiamo d’apparire e non di essere, apparire a tutti i costi, in qualunque modo non importa come, l’importante è apparire, con finto perbenismo, senza vergogna e con tutta l’ipocrisia possibile. Invece Fratelli e Sorelle «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi». Perché la carità sia autentica deve essere gratuita, pura, fatta con cuore umile, libero da ogni pregiudizio, da ogni forma di tornaconto e guadagno se non la salvezza, la grazia e l’amore gratuito di Dio. Con questo atteggiamento Cavalieri e Dame possiamo accogliere con verità il posto assegnatoci da Dio, sia esso il primo o l’ultimo e costruire con Maria «Umile e alta più che creatura» (Dante Paradiso 33), quell’intima relazione con Lui, «che ha umiliato se stesso divenendo simile agli uomini e rendendosi obbediente fino alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato». Gesù ci insegna ad amare anche il nostro ultimo posto, incomprensioni, precarietà, malattia, fallimenti, ingiustizie e ci invita a perseverare nello stare con Lui proprio mentre siamo all’ultimo posto, sapendo che lui ci Ama in modo speciale, perché l’amore è vero solo se è gratuito. E noi nella nostra piccolezza, nella nostra umiltà in quanto Cavalieri dovremmo essere portatori di quest’Amore gratuito verso il povero, il bisognoso, verso colui che non ha niente da darci in cambio.

 Dal Vangelo secondo Luca Lc 12,49-53

Cari Fratelli e Sorelle il fuoco di cui parla Gesù è il fuoco dello Spirito Santo, presenza viva e operante in noi fin dal nostro Battesimo.
Quella forza creatrice che tutto purifica e rinnova, brucia le miserie umane, gli egoismi e ogni peccato. Trasforma il nostro cuore di pietra in un cuore di carne, agisce dentro di noi trasformandoci in creature nuove.
Ci rende capaci d’Amare. Gesù desidera che il fuoco dello Spirito Santo e dell’Amore con la A maiuscola divampi nei nostri cuori e si accenda. Solo partendo dal cuore l’incendio dell’amore divino potrà svilupparsi e far progredire il Regno di Dio. Gesù vuole infonderci quel coraggio che ci manca per agire secondo la sua parola. Però aggiunge:
«Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione». Queste parole suonano come una contraddizione. Lui che ha chiesto di amare i nemici, da del “divisore” al diavolo, peggiore nemico dell’uomo, ha pregato fino all’ultimo per l’unità dei cristiani e di tutti gli esseri umani. No! Cavalieri e Dame Gesù non si contraddice, anzi ci invita ad approfondire il senso di queste parole, a cercare ancora in profondità. Questo approfondimento mi ha fatto tornare alla mente un passo delle predicazioni dei monaci Cluniacensi e dei riformatori Gregoriani alla fine dell’XI secolo. Ancora non erano nati gli Ordini Cavallereschi e la vecchia cavalleria era ancora in maggioranza dispotica e tiranna. «Per potersi dire Cavalieri non basta disporre di un cavallo e delle armi, o avere anche un modesto seguito, né essere passati per il rito iniziatico dell’investitura. Chi pur possedendo tutti questi requisiti, non avesse accettato di difendere la Chiesa e le sue istituzioni, né avesse protetto gli orfani, gli inermi, i deboli, i pellegrini, i paupers in genere, o ancor peggio li avesse coperti di angherie e vessazioni non poteva definirsi cavaliere, anzi era un “anticavaliere”».
Quella fiamma che arde nel nostro cuore ci chiede d’essere Cavalieri fino in fondo. Ci chiede l’audacia necessaria per accendere il fuoco dell’Amore. Il coraggio per la difesa dei deboli, degli inermi, per andare incontro al povero e al bisognoso. Ci chiede di essere sempre in piedi, pronti, di andare controcorrente e di non accodarci alle effimere vanità del mondo. Di farci voce di chi non ha voce, di lottare contro il male e le ingiustizie, di non essere mai passivi né arresi.
Fratelli e Sorelle la maldicenza uccide più di una bomba ed è divisiva. Si può uccidere di più nell’inerzia e nella passività, ma anche stando alla finestra a guardare. Ci chiede di giudicare da noi stessi, come esseri liberi e intelligenti, svegli e sognatori, così come ci ha creati. «La differenza decisiva non è tra ci crede e chi non crede, ma tra chi pensa e non pensa» (C.M. Martini). Tra chi si domanda che cosa c’è di buono o di sbagliato in ciò che accade e chi assuefatto ai quotidiani avvenimenti non si domanda più niente. Cari Fratelli e Sorelle ogni sofferenza, ogni spina nella carne, ogni difficoltà che incontriamo sulla strada della vita, porta il nostro cuore senza luce lontano da Dio, ma porta anche alla resurrezione. Rinascita che ci fa essere doppiamente Cavalieri, esteriormente con il nostro esempio, ma soprattutto interiormente, con il dono di noi stessi al Fratello che soffre, al povero e al bisognoso. Perché quella fiammella di fuoco donataci da Dio divampi portando quel calore e quella luce che Nostro Signore ci ha donato con la sua morte e resurrezione.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 1,39-56

Cari Fratelli e Sorelle! L’Assunzione di Maria al cielo è un dogma della Chiesa cattolica. Maria madre (Theotókos) di Gesù Figlio di Dio al termine della sua vita terrena, andò in paradiso in anima e corpo. Questo culto si sviluppò diffondendosi e radicandosi nella tradizione popolare intorno al V secolo d.C. Nel 1950 Papa Pio XII avvalendosi dell’infallibilità papale proclamò il dogma con la costituzione apostolica Munificentissimus Deus con la seguente formula: «La Vergine Maria completato il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Questo Incipit vuole essere una breve introduzione alla grande Solennità che oggi celebra la Chiesa cattolica e all’enorme importanza “del Canto della Figlia di Sion” meglio conosciuto come “Magnificat”. È la preghiera per eccellenza di Maria, il cantico dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza del vecchio e del nuovo Israele, testo fondamentale, ponte o cerniera tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra Israele e la Chiesa è divenuto preghiera di tutta la Chiesa in tutti i tempi. Dalla regola di S. Benedetto redatta intorno al 530 il Magnificat viene cantato ogni giorno a conclusione del Vespro. Il Magnificat prima è diventato oggetto di ricerca critico-esegetica, poi in tempi recenti, terreno di letteratura non solo Teologica, ma anche sociopolitica. L’inno alla Vergine è un canto di liberazione, perché presenta la concretezza e la coralità coinvolgente degli antichi canti di liberazione del popolo di Dio, a intonare tali inni non di rado sono state donne eccezionali, (Miriam, Debora, Giuditta…), come il cantico di Mosè che a intonarlo e a ballarlo fu Miriam sua sorella: «il Signore ha mirabilmente trionfato ha gettato in mare cavallo e cavaliere». E Maria di Nazaret avrebbe cantato con tutta la comunità dei redenti la salvezza definitiva. La riscoperta della valenza antropologica e sociopolitica del Magnificat ovviamente come componente e non in alternativa al suo significato teologico-salvifico, ha conferito notevole impulso anche alla rivalutazione della donna, di cui Maria dopo lunghi periodi di incomprensione culturale si rivela sempre più archetipo credibile ed espressione privilegiata. Ovviamente a differenza di altri canti è un canto singolare in quanto lo stesso popolo di Dio, noi stessi ci possiamo identificare con l’umiltà di Maria prostrandoci davanti a Dio. Tanto ci sarebbe ancora da dire su questo canto, troppe pagine ci sarebbero da scrivere visto che è un canto antico ma anche nuovo, attuale. Fratelli e Sorelle ognuno di noi può domandarsi se è un canto storico-salvifico, natalizio o pasquale, teologico e mariano, oppure sociopolitico? Nelle due parti in cui il canto è diviso, troviamo risposta alle nostre domande, ogni componente vi è compresa. Il Magnificat Cavalieri e Dame mette in rilievo la grandissima umiltà di Maria. La sua grande disponibilità per il gratuito servizio verso gli altri, la sua fermezza nell’affidarsi a Dio. Nella consapevolezza che da soli nulla possiamo fare. Maria colei che Dio ha scelto come Theotókos ci insegna l’umiltà, il senso dell’affidarsi, la disponibilità gratuita verso gli altri, specialmente i più deboli e i più bisognosi, la comunione e la condivisione, perché come ho sempre detto da soli non possiamo fare nulla. Allora affidiamoci a Dio a Maria Theotókos perché le fondamenta delle nostre case e del nostro Ordine siano sempre saldamente poggiate sulla roccia, che è Cristo Signore Nostro.

Dal Vangelo secondo Matteo Mt 5,1-12°

Cari Fratelli e Sorelle nel mezzo dell’autunno con le giornate in evoluzione d’accorciamento e il clima che dovrebbe farsi più rigido, le antiche civiltà pagane effettuavano riti in onore delle potenze notturne, invernali e degli inferi; la Chiesa Madre e Maestra, nello stesso periodo c’invita a celebrare la nostra eredità beata. Cavalieri e Dame noi non siamo fatti per le tenebre, la morte e l’annichilimento, noi siamo per la Luce, per la vita che non finisce! Dio vuole che, «siamo santi come Egli è santo»; questo è il senso della grande Solennità di oggi e della commemorazione di domani. Ogni creatura umana è chiamata a vivere per sempre con il Signore, nella «dolcezza senza fine della sua presenza e del suo Amore». Ovviamente Fratelli e Sorelle l’esperienza comune del dolore e della morte a prescindere dalla dimensione sociale, ci rende consapevoli della nostra precarietà in questa vita terrena. Cavalieri e Dame i santi sono gli uomini delle Beatitudini, ma il termine Beati non può essere compresso solamente nel mondo delle emozioni, impoverito alla sola formula terrena di contento e fortunato. In questo caso indica uno stato di vita, è l’aspirazione alla gioia, all’amore, alla vita. Consolida la certezza d’essere in piedi, in cammino e che Dio cammina con noi. È un invito a non arrendersi, alla non violenza, a essere miti, nel pianto a non lasciarci cadere le braccia e a produrre sempre Amore, perché Dio regala gioia a chi produce Amore. I santi non sono perfetti supereroi che non cadono mai, sono i super bravi a rialzarsi quando cadono nei momenti di crisi, di sconforto, di dolore e di pianto. Per noi credenti significa seguire l’unica meta che è Dio; saperlo seguire in modo originale, senza abbandonarlo, questo è andare controcorrente, è la vera attuale modernità, quando intorno a noi in molti o quasi tutti vanno dalla parte opposta. Così sono i santi: «Respirano come tutti noi l’aria inquinata dal male che c’è nel mondo, ma nel loro cammino non perdono mai di vista la strada tracciata da Gesù, quella indicata nelle Beatitudini, che sono la mappa della vita cristiana». Oggi è la solenne festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa. Chi sono i santi? Non solo quelli del calendario, ma anche tutti i battezzati. I Fratelli e Sorelle della porta accanto, che con il Sacramento del battesimo sono chiamati come noi a una condotta di santità. Ognuno per i doni (talenti) ricevuti, la famiglia, il lavoro, nella vita sociale, all’interno del nostro Ordine, tutti siamo chiamati a portare l’annuncio della parola di Dio. A portare in sanità la luce e la gioia del nostro battesimo per allontanare l’oscurità, la tristezza e il malessere provocato dall’ostilità e dalla maldicenza. Le persone care alle quali vogliamo bene, che portiamo nel nostro cuore e che ci hanno preceduto nella casa di Dio Padre hanno già fatto il percorso di quella mappa. Le loro preghiere siano per noi una luminosa lampada che illumina gli oscuri tratti di strada, verso il raggiungimento della meta.
Cavalieri e Dame oggi è una solenne festa di famiglia, di tante persone semplici, umili e nascoste, che nel silenzio danno il loro apporto, la loro vita per aiutare il prossimo, i bisognosi. Lavorano nella vigna di Nostro Signore donando il loro tempo e anche la loro vita perché l’Amore di Dio trionfi sulle tenebre che sono nel mondo.

La Corona del Principato Sovrano di Kerak
Arma di S.A.R. il principe Enzo Mattani di Kerak riconosciuta quale esclusivo diritto di possesso familiare anche dalla Magistratura Italiana
Il Castello di Kerak